Da
Vittorio Bellavite, riceviamo un interessante articolo di
Raniero La Valle in cui si fa il punto sulla partecipazione alle celebrazioni dei cinquant’anni dal Concilio Vaticano II, che si sarebbe rivelato molto fruttuoso, soprattutto per giungere a capire, oggi, “ciò che pur c’era nell’evento del Concilio, ma che allora non capimmo, cose che allora erano rimaste nascoste perfino ai suoi principali protagonisti”.
Riforma del Papato
Il metodo che abbiamo scelto per partecipare alle celebrazioni dei cinquant’anni dal Concilio Vaticano II si è rivelato molto fruttuoso: esso consiste non nel ricordare, ma in un capire differito; non ridare colore a immagini sfocate ma capire oggi, nella nuova situazione della Chiesa e del mondo, ciò che pur c’era nell’evento del Concilio, ma che allora non capimmo, cose che allora erano rimaste nascoste perfino ai suoi principali protagonisti. Una cosa di cui allora nessuno si accorse fu che nella “Pacem in terris” di papa Giovanni, suo estremo magistero prima della morte, non solo c’era una grande novità teologica e antropologica, ma c’era in nuce la riforma del papato e perciò della Chiesa.
È questa la conclusione a cui è giunta la grande assemblea ecclesiale intitolata alla “Chiesadituttichiesadeipoveri” che si è tenuta il 6 aprile a Roma e ormai già per la seconda volta in un anno.
L’esame dell’enciclica giovannea ha rimandato alla storia della sua redazione, i cui documenti sono stati magistralmente pubblicati da Alberto Melloni. Da questi documenti risulta la perfetta consapevolezza, da parte del Papa e dei suoi teologi di fiducia, che i contenuti dell’enciclica – il riconoscimento a ogni essere umano del diritto alla libertà; la libertà sullo stesso piano della verità, della giustizia e dell’amore; la perfetta parità di diritti e di doveri della donna e dell’uomo – erano il rovesciamento di un costante magistero pontificio dell’800 dalla Mirari Vos di Gregorio XVI a Pio IX e fino a Pio XII. Una Chiesa che veniva dal mito dell’infallibilità e da un papato costruito nel II millennio come un potere superiore ad ogni altro potere non avrebbe potuto mutare un magistero conclamato e ricorrente del papa se non fosse stato il papa stesso a farlo; e non era facile pensarlo dopo che Gregorio VII aveva fatto del pontefice il solo episcopus universalis del quale i principi dovessero baciare i piedi, dopo che Innocenzo III, la figura dialettica di San Francesco, aveva stabilito il diritto del papa a esercitare il potere anche temporale, per rimedio al peccato, e dopo che Bonifacio VIII aveva rivendicato come necessaria la sottomissione al Romano Pontefice di ogni umana creatura.
Ed è qui la novità di papa Giovanni: l’autocritica del magistero e l’autoriforma del papato. Questa istanza di una riforma del papato è sembrata poi entrare in letargo nei cinquanta anni successivi all’enciclica, ma ecco oggi ritorna possibile. La sorpresa è stata Bergoglio, fin dalla scelta del nome, come a dire che si ricomincia non da Innocenzo III, ma da Francesco d’Assisi, non dal sovraccarico dell’istituzione, ma dalla leggerezza della profezia; il chinarsi al bacio del piede dei detenuti, la sera del giovedì santo, riscatta l’antica pretesa del papa che a lui tutti i principi baciassero i piedi, il bacio del piede della giovane reclusa dai lunghi capelli neri, restituiva alla donna quel gesto di venerazione e di affetto che la peccatrice aveva compiuto bagnando di lagrime i piedi di Gesù, asciugandoli con i suoi capelli, baciandoli e cospargendoli di olio profumato. Pietro, in ciò veramente vicario di Gesù, pagava il debito d’amore del suo maestro, di nuovo toccava il corpo di una donna finora sempre tenuto nascosto e temuto nella Chiesa. E forse proprio questo vuol dire la riforma del papato. Per esempio vuol dire, come ha spiegato papa Francesco nell’omelia per l’inizio del suo pontificato che “certo, Gesù Cristo ha dato un potere a Pietro, ma di quale potere si tratta? Si tratta di un potere che è il servizio”. La riforma del papato vuol dire annunciare un Dio che è solo perdono e misericordia, un Dio che “giudica amandoci”, come Francesco ha detto nella via Crucis al Colosseo. Non un Dio che giudica e ama, come subito hanno tradotto i volgarizzatori che non si accorgono delle novità; perché questo, di dispensare insieme amore e giudizio, lo faceva anche la Chiesa dell’Inquisizione; si tratta invece di un Dio in cui non c’è giudizio, perché l’amore è il giudizio: quello che il papa ha detto è che non c’è una misericordia accanto al giudizio ma, come pensava Isacco di Ninive, la misericordia stessa è il giudizio; e questa misericordia il papa l’ha imparata dai libri del cardinale Kasper non meno che dalle parole di una umile nonna di Buenos Aires, come ha detto nel suo primo Angelus dalla finestra di una stanza che non è più la sua.
E naturalmente la riforma del papato vuol dire la riforma della Curia, vuol dire la collegialità, vuol dire la povertà. E soprattutto vuol dire che nessuna riforma, ma anche nessuna conservazione, si può fare da un papato, da una Chiesa senza popolo, cioè senza i discepoli, senza le donne, senza le madri che decidono il numero dei figli, senza i divorziati, senza gli omosessuali, senza gli stranieri, senza gli immigrati, senza i poveri, senza gli ultimi.
Certo sarà molto difficile per Francesco intraprendere questa riforma. Ma se la vorrà fare, noi, Chiesa, ci siamo..
Raniero La Valle